La Buona Novella non è una buona notizia, ma un album di Fabrizio de Andrè.
Negli anni della contestazione giovanile (il famoso ’68) ero diventato un suo ammiratore e assieme a pochi intimi amici, ascoltavo quasi di nascosto i suoi dischi.
In controtendenza rispetto al momento storico: – i giovani erano alle prese con le occupazioni delle scuole, con gli scontri di piazza e i picchettaggi davanti alle fabbriche -, De Andrè si era da poco presentato a loro, in “direzione ostinata e contraria“, si direbbe oggi, con un disco dal titolo eloquente: – “Tutti morimmo a stento“-, nel quale con grande umanità, seppur in maniera spregiudicata e anticonformista, parlava di deboli, di oppressi, di perdenti, di morte, contro la violenza, sempre uguale a se stessa e il potere (tanto per cambiare) che difende i propri privilegi (che attualità…).
Quando nel 1970 uscì La Buona Novella andai, senza esitazione a comprarlo.
Rimasi sorpreso per l’argomento trattato e anche un po’ deluso, non tanto per il contenuto poetico e la musica (bellissimi), ma perché mi sembrò “fuori tema” e troppo “di chiesa”.
Non seppi coglierne il valore simbolico, De Andrè ci stava parlando del più grande “rivoluzionario” di tutti i tempi, Gesù, raccontando la lotta delle classi sociali dell’epoca remota dei Vangeli, mettendo in risalto e dando una lettura moderna all’eterno conflitto tra oppressi e oppressori. Continua a leggere
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